Il Mais, la siccità e l’economia di carta. Le mezze verità che sommate fanno una grossa bugia

Il Direttore Generale della FAO José Graziano da Silva, presentando i dati più recenti sulla situazione mondiale dei prezzi degli alimenti e sull’andamento delle maggiori produzioni agricole del pianeta, ha dichiarato: “This is reassuring. Although we should remain vigilant, current prices do not justify talk of a world food crisis. But the international community can and should move to calm markets further” (06.09.2012).

Si è sentito parlare molto, negli ultimi mesi, di siccità negli Usa. L’allarme è cresciuto perché a mancare di acqua è il mais delle praterie. Tolti di mezzo gli Indiani e i bisonti in Iowa, Illinois e Indiana, le cosiddette terre libere sono state portate verso la civiltà con la coltivazione dei cereali e, nella parte più recente della storia agraria degli Stati Uniti, verso la monocultura ripetitiva del mais.

Ogm o ibrida, pianta artificiale fragile, estremamente golosa di acqua e di prodotti chimici, utilizzata per il bestiame e per le macchine (agro carburanti), quella del mais è una coltivazione che riassume in sé tutto quello che l’agricoltura non dovrebbe essere: una miniera a cielo aperto. Ad ogni stagione di mietitura resta una voragine sempre più grande nella fertilità, nella disponibilità di acqua, nella diversità delle specie viventi nelle “terre del mais”. Tra giugno e luglio il prezzo del mais alla borsa di Chicago è aumentato del 52%.

Le grandi industrie dell’allevamento si lamentano. Sanderson Farms Inc. (Safm), il terzo più grande produttore di polli degli Usa sostiene che «ad ogni aumento di 10 centesimi nel prezzo del mais, perdiamo oltre 2 milioni di dollari». Tutti preoccupatissimi che l’esplosione del prezzo del mais aumenti l’insicurezza alimentare. Infatti Goldman Sachs Group Inc., Barclays Plc, così come Standard & Poor’s e anche la Rabobank International (le stesse banche d’affari che speculano sulla terra, cfr. www.grain.org e www.farmlandgrab.org) sono talmente preoccupate che si mobilitano con raffinata sensibilità internazionalista per “allertare l’opinione pubblica ed i governi dell’imminente crisi della sicurezza alimentare per i più poveri”.

Noi restiamo convinti – e cercheremo di mettere in fila le informazioni di cui oggi disponiamo per dimostrarlo – che in verità i fondi d’investimento si erano preparati una bella ricca tortilla per “cogliere l’opportunità di una speculazione con contratti a termine”, come avevamo scritto già in luglio per Paese Sera.

Con i dati aggiornati alla fine del mese di agosto 2012, possiamo avere un quadro più preciso.

I dati USA, alla fine del mese di agosto (fonte USDA) ci dicono che erano stati seminati il 4,9% in più di ettari rispetto al 2011 (quasi certamente mettendo a coltura terre meno adatte alla coltivazione del mais) e che gli ettari effettivamente raccolti – quando è ancora in corso la mietitura – saranno comunque superiori del 4% a quelli raccolti nel 2011 (stessa data). Le rese più basse del 16.2% daranno una produzione ridotta, si stima, del 12.8% rispetto alle attese. Occorre aspettare ottobre per avere dei dati certi, quindi ora si continuano a negoziare i contratti a termine nelle pure regole della speculazione finanziaria.

Ma il mais degli USA è tutto il mais del mondo?

Intanto secondo le previsioni FAO e USDA, le esportazioni di mais del Brasile di quest’anno saranno le più alte di sempre, grazie ad un raccolto strepitoso. Anche l’Argentina ha avuto ottimi risultati e si presenta sul mercato mondiale con abbondantissime capacità. La Cina, previdente come sempre, ha infatti passato un protocollo d’acquisto di cereali sia con Brasile che con Argentina.

E’ noto il posto che occupa il mais nel mercato mondiale dei cereali. Nel 2012, il mais rappresenta il 12% dell’esportazioni agricole USA che corrisponde a una quota di circa il 48% del mercato mondiale del mais; tuttavia, solo il 15% del mais USA viene esportato, mentre il 40% è utilizzato per la produzione di etanolo con il sostegno dei soldi pubblici. Lo strapotere degli USA sul mercato mondiale è di assoluta evidenza e va rigorosamente collegato con la concentrazione e lo stretto coordinamento che mantengono le imprese proprietarie dei silos di stoccaggio e della messa al mercato del mais stesso.

Secondo i dati FAO (al 6 settembre 2012) il commercio mondiale dei “cereali minori” (mais, orzo etc) resta nella quota abituale, quasi stagnante, pari circa al 10% della disponibilità totale dell’intera produzione mondiale.

Per la fine del 2012 si prevede che il consumo di mais per il bestiame e per l’alimentazione umana – un sacco di gente continua a vivere mangiando tortillas e polenta – rimanga stabile, ma il consumo per altri usi, come la produzione di etanolo assistito per esempio, diminuisca del 4%.

In sintesi, per quello che riguarda l’insieme dei cereali la situazione 2012/2013 sarebbe:

  • una produzione totale in leggera diminuzione rispetto al 2011/12 ma in aumento rispetto al 2008/2009 e agli anni seguenti;

  • una disponibilità totale quasi uguale a quella del 2011/2012 ma più importante di quella del 2008/2009 e degli anni seguenti;

  • il commercio internazionale dei cereali era pari al 12.3% della produzione nel 2008/2009 ed è stimato pari al 12.6% nel 2012/2013;

  • le riserve globali 2012/2013 – stimate – sono essenzialmente invariate (leggerissimo l’aumento previsto) rispetto al 2008/2009.

In conclusione gli aumenti sul prezzo del mais praticati nei mercati interni – alla fine del mese di agosto le industrie che producono mangimi per cani informano i rivenditori che da ottobre praticheranno un aumento dei prezzi di vendita “… a causa della siccità negli USA che fa aumentare il prezzo del mais” – non hanno nessuna giustificazione importante nell’andamento né dell’offerta, né della domanda globale e, tanto meno, a livello interno. Eppure leggiamo i titoli strillati nei giornali italiani sullo stretto legame tra siccità e aumento dei prezzi dei prodotti alimentari (carne, uova, mangimi etc.).

Se guardiamo un po’ indietro, alla durissima crisi del 2007/2008, secondo AMIS (Fao ed altri) la trasmissione nei mercati interni del prezzo internazionale dei cereali è stata una media del 79% di quello stesso prezzo. La trasmissione media del prezzo del mais è stata del 92% (sarà per il carattere quasi esclusivista di alcuni fornitori?) sull’insieme dei mercati interni ma per Benin, Peru, Malawi, Niger è stata del 200%!

Allora dev’esserci qualcos’altro altro che influenza i prezzi del mercato globale. Anzitutto la struttura del mercato interno, dominato da pochissime forze economiche strettamente protette dalle élites dominanti nei vari paesi, con politiche pubbliche che ne favoriscono l’azione quasi monopolistica. Vediamo poi un po’ più da vicino la cosidetta formazione del prezzo internazionale dei cereali.

Il mercato dei futures sulle commodities, un mercato su prodotti che comunque esistono sempre in quantità limitate per la loro stessa natura, è una parte molto piccola dell’industria finanziaria che si rivolge al “mercato dei capitali” (azioni etc.) – nel 2004 questo era 240 volte più grande (fonte: US Congress) -. L’arrivo di somme ingenti (miliardi di dollari) su questo specifico mercato ha un devastante effetto moltiplicatore sui prezzi. Contro ogni ortodossia liberista, quando gli speculatori – in particolare gli Index speculators – vedono che i prezzi salgono aumentano gli acquisti di questo tipo di contratti. Insomma la domanda dei futures funziona al contrario, cresce quando i prezzi salgono. L’impatto sul mercato fisico, ovvero l’innalzamento dei prezzi, tocca chi ha bisogno di grano o polenta; d’altro canto il livello dei prezzi raggiunto da questi contratti non aumenta o diminuisce secondo le quantità fisiche di mais o grano presenti sul mercato.

Invece di passare il tempo a cercare di prevedere la domanda o l’offerta di grano sarebbe meglio analizzare la domanda di futures sulle materie prime agricole. E la conclusione potrebbe essere che, per combattere la volatilità dei prezzi agricoli, le politiche pubbliche devono prevenire i danni della speculazione finanziaria vietando molti degli strumenti di cui essa si serve, e in particolare quelli relativi ai futures sulle materie prime agricole.

Altro che siccità. Se si smettesse di coltivare varietà di mais che oltre all’acqua che manda il cielo hanno bisogno, per l’intero ciclo produttivo, di massicce dosi di irrigazione, forse la siccità, a cui dovremo abituarci, farebbe meno danni nei campi.

Antonio Onorati, Centro Internazionale Crocevia