Sovranità alimentare, una piattaforma di lotte e rivendicazioni. Cibo giusto in una società giusta.

“Noi non fabbrichiamo cibo, noi lo produciamo. Il cibo, per noi, è frutto della terra e del lavoro”

Comunicato Stampa ARI – Associazione Rurale Italiana

14 ottobre 2019

Questa giornata è dedicata a chi il cibo lo produce, spesso ricordati come la “gente dei campi”. Che strana espressione per indicare chi, nei campi, ci lavora per un salario o un pezzo di pane. Servi spesso di un padrone, poco importa se visibile o invisibile. Oppure combattenti di una battaglia lunga secoli per difendere la propria autonomia e dignità, sempre in bilico tra schiavitù, servaggio e sopravvivenza.

Nell’Italia dell’industrializzazione dell’agricoltura e della sua finanziarizzazione tutto sembra riassumersi nei parchi tematici, nella pubblicità, nel “made in Italy”, nell’obbligo di esportare ed essere competitivi grazie ai soldi pubblici e finalmente nella falsa rappresentazione di una merce (“asset”) – la terra – da vendere o comprare. Quando la terra diventa un asset (qualsiasi bene di proprietà di un’azienda – macchinari, merci, ecc. – che possa essere monetizzato e quindi usato per il pagamento) gli esseri viventi, umani o no, spariscono. Sono cancellati, rimossi.

L’agricoltura contadina del nostro Paese, non un residuo economico, storico e culturale, ma un modo di produzione attuale, distinto, specifico, che è proprio – con diverse sfumature ed approcci – ad almeno 800.000 aziende agricole, pur essendo oggi un motore fondamentale del sistema agroalimentare, rimane priva di ogni strumento specifico di riconoscimento. I diritti di chi vi lavora e vive sono violati o apertamente negati, non solo dalle mafie o dai potenti, ma dallo stesso Stato. Già sappiamo che i cosiddetti incentivi per il potenziamento delle aziende agricole, come i pagamenti PAC basati sugli ettari o le risorse nazionali impegnate per la cosiddetta “agricoltura 4.0” o per le “nuove” tecniche di creazione varietale (NBT) sono il supporto vitale per lo sviluppo di grandi aziende agricole a carattere industriale e spingono fuori dal mercato le piccole aziende contadine. E’ evidente che questa strategia ha conseguenze di più ampia portata sull’intero sistema agricolo e alimentare nazionale.

L’accesso a materie prime a basso costo ha permesso alle grandi aziende agroalimentari “nazionali” di sviluppare prodotti dalla qualità mediocre, spesso millantando una fondamentale qualità del “made in Italy”, prodotti alimentari altamente trasformati, accelerando ulteriormente il processo di concentrazione in atto nella catena di approvvigionamento. Necessario a vincere la concorrenza sul mercato globale.
L’innovazione – ampiamente sostenuta da ingenti risorse pubbliche versate nel settore agroalimentare – viene confusa con “digitalizzazione”, con “big data”, informazione genetiche digitalizzate (DSI) e NBT senza che vi sia un quadro normativo obbligatorio su chi controlla questi processi, a chi giovano, quale sia il loro impatto sui sistemi agrari nazionali e qual modello agricolo finirà per imporsi. Innovazioni economiche efficaci sviluppate dall’agricoltura contadina in aziende di piccola dimensione sono totalmente trascurate anche se questa tipologia aziendale, con meno di un addetto a tempo pieno (teorico) produce almeno il 25% del valore dell’agricoltura nazionale (fonte: ISTAT e varie elaborazioni)

I produttori più ecologicamente sostenibili non vengono ricompensati adeguatamente per la salubrità, verso l’ambiente e le persone, delle loro produzioni e per le funzioni sociali e ambientali che svolgono, ma si tenta perfino di violare il loro diritto – garantito dai regolamenti europei – alla risemina dei loro raccolti anche se le sementi riseminate si sono spesso adattate naturalmente ai cambiamenti climatici e ai nuovi parassiti.
I prodotti di effettiva qualità – in questo contesto – non sono accessibili a quella larga parte della popolazione che non dispone delle necessarie risorse finanziarie stabili ed adeguate per accedere a questo tipo di consumi alimentari. Il cibo di qualità, nutriente, sano e socialmente giusto diventa un lusso per un élite di compratori.

Condizioni di lavoro e di vita spaventose dei lavoratori agricoli e alimentari in tutta l’UE e nei Paesi con cui stringiamo iniqui rapporti commerciali; questi fenomeni non possono essere liquidati come casi isolati ma sono strutturalmente parte della catena del valore globale su cui vive e prospera l’agroindustria e l’agricoltura industriale. Il traffico di esseri umani e le condizioni di vera schiavitù moderna sono presenti sia nella produzione agricola che nell’industria di trasformazione e nella logistica collegata. In questo contesto le donne sono particolarmente vulnerabili allo sfruttamento e agli abusi.
Il caporalato non è solo un fenomeno mafioso perché la dipendenza del sistema agricolo dominante dal lavoro a basso costo, stagionale e/o giornaliero è, infatti, un suo elemento strutturale.

La PAC torna ora nelle mani dei governi nazionali. ARI insiste sulla necessità di una transizione verso un sistema agroalimentare che fornisca alimenti sani, nutrienti, convenienti e distribuiti localmente; una produzione agricola che nutra il terreno e gli ecosistemi, protegga dal cambiamento climatico, garantisca prezzi equi, certi e dignitosi ai produttori agricoli e compensi giusti e dignitosi al lavoro salariato.
In altri termini mettere un tetto al sostegno per ettaro e sostenere l’agricoltura contadina ed il lavoro, finanziare adeguatamente lo sviluppo rurale ed imporre regole strette di condizionalità sociale a quanti ricevono il sostegno pubblico.

Perché questa transizione abbia successo, dobbiamo collocare i produttori agroecologici, di piccola scala – quelli che per noi costituiscono il cuore dell’agricoltura contadina nel nostro Paese – al centro e fornire loro il sostegno di strategie politiche, economiche e sociali di cui hanno bisogno per continuare a produrre e rendere vivibile lo spazio rurale.
E’ sempre più urgente una legislazione specifica basata sui diritti fondamentali che ci siamo conquistati alle Nazioni Unite nello scorso dicembre, ed a supporto del nostro modo di intendere l’agricoltura perché “noi non fabbrichiamo cibo, noi lo produciamo. Il cibo, per noi, è frutto della terra e del lavoro”.

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