Il Gruppo di lavoro sulla biodiversità agricola dell’IPC, di cui Crocevia è facilitatrice, è a Montreal, per partecipare alla 15a Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Biodiversità (CBD COP15) e all’ultima riunione del Gruppo di lavoro sul Quadro globale per la biodiversità post-2020 (Global Biodiversity Framework – GBF).
Nella metropoli canadese sono attesi 20 mila delegati, che si riuniranno in un vertice che dovrebbe produrre quello che viene definito un “Accordo di Parigi per la natura“, un nuovo piano globale per fermare la perdita di biodiversità. Il precedente set di obiettivi, con orizzonte 2020, è stato clamorosamente fallito in ogni sua parte.
L’agricoltura alla COP15
Porteremo in questo vertice la voce dei piccoli produttori alimentari, con l’intento di seguire i negoziati e assicurarci che i governi siano consapevoli delle misure da prendere per rispondere alla crisi della biodiversità dalla prospettiva della sovranità alimentare. La COP15 si concentrerà sulla definizione di obiettivi globali concordati per arrestare e invertire la perdita di “biodiversità”, ovvero la varietà all’interno delle specie di animali, piante, funghi e persino microrganismi come i batteri, che compongono il nostro mondo naturale. Questa varietà è fondamentale anche per la nostra sopravvivenza.
L’agricoltura industriale sarà un argomento molto dibattuto alla COP, perché rappresenta un fattore di pressione sulla biodiversità. Una visione miope e biocida è quella di chi sostiene che per ridurre questo impatto sia necessario ulteriormente intensificare la produzione, così da produrre più cibo sulla stessa quantità di suolo. Per noi questo non è accettabile e rischia di accelerare il degrado complessivo di tutti gli ecosistemi.
Diritti collettivi contro conservazione rapace
Inoltre, cercheremo di spingere i delegati governativi ad adottare un approccio basato sui diritti collettivi, invece di abbracciare false soluzioni che, come al solito, sono promosse dal settore privato e da alcune grandi ONG. Questi soggetti dicono di voler preservare la natura, ma in realtà propongono progetti di “salvaguardia” con alto rischio di violazione dei diritti umani, perché basati sulla privatizzazione e conservazione delle aree naturali con relativo sfratto delle comunità che vivono in quei luoghi da secoli. I paesi membri della CBD potrebbero concordare su alcune questioni chiave, tra cui l’impegno a proteggere il 30% delle terre e dei mari del mondo entro il 2030, fatto che sembra positivo se non fosse che nasconde potenziali operazioni di land grabbing, water grabbing e altre violazioni ai danni delle comunità native.
Siamo convinti che l’umanità faccia parte della rete della vita e non possa essere separata dalla natura. Per questo proponiamo di trovare soluzioni reali per la biodiversità, che siano al tempo stesso in grado di ripristinare gli ecosistemi e di promuovere un rapporto armonioso con le attività umane.
Per questo motivo, riteniamo che l’agricoltura industriale sia uno dei principali fattori di perdita di biodiversità e che la sua espansione debba essere fermata. La conversione dei suoli, la perdita di habitat e l’uso eccessivo di pesticidi, oltre a una serie di altri fattori diretti e indiretti, incidono e minacciano la biodiversità dentro e fuori le aziende agricole, con conseguenze disastrose sugli ecosistemi e sugli insediamenti umani. Le pratiche agricole industriali riducono la biodiversità del suolo e quindi la sua fertilità, minacciando il futuro della sicurezza alimentare e nutrizionale. Di conseguenza, la biodiversità agricola sta scomparendo rapidamente se è vero che oggi – su 6000 specie vegetali a scopo alimentare – la gran parte della produzione agricola mondiale ne utilizzi appena 9.
I sistemi industriali di agricoltura, silvicoltura e pesca utilizzano sementi, alberi, razze e specie acquatiche omogenee e proprietarie, spesso modificate geneticamente per includere tratti genetici utili all’industria. Sono inoltre coltivate in agroecosistemi semplificati e fortemente contaminati da biocidi e altri prodotti agrochimici.
No alla biopirateria digitale
Fortunatamente, su questioni come le informazioni di sequenza digitale (DSI – Digital Sequence Informations), i Paesi rimangono divisi e in questo spazio intermedio lotteremo per inserirci con le nostre proposte: vogliamo infatti evitare casi di biopirateria legalizzata attraverso la digitalizzazione di sequenze genetiche materiali, una pratica che le imprese hanno sviluppato e che ora cercano di far escludere dagli obblighi di compensare le comunità locali da cui hanno originariamente prelevato il germoplasma. Ma queste comunità hanno selezionato per prime, in decenni o secoli di lavoro, le varietà che oggi le aziende possono digitalizzare e stoccare nei loro database. Per questo non devono poterla fare franca e completare il furto nei confronti dei Popoli Indingeni e dei contadini.
Inoltre, la CBD deve abbracciare l’agroecologia come modello e allontanarsi dalla difesa di un’agricoltura industriale con modifiche di facciata. Questo paradigma infatti rappresenta oggi un grave rischio per la sicurezza alimentare globale, perché mina la resilienza di molti sistemi agricoli a parassiti, agenti patogeni e cambiamenti climatici. Al contrario, la FAO riconosce che le popolazioni indigene e i piccoli contadini di tutto il mondo sono i veri custodi della biodiversità naturale e agricola, sottolineando l’esigenza di guardare ai loro saperi e pratiche per trovare risposte alla crisi attuale.
Purtroppo, nel concreto questo si realizza cercando di innestare le conoscenze ancestrali su pratiche agroindustriali estrattive, in un connubio impossibile che risulta in un generale greenwashing. Lavoriamo e lavoreremo affinché l’agroecologia e i diritti dei piccoli produttori e dei Popoli Indigeni siano inclusi nel Quadro globale per la biodiversità e ci batteremo alla COP15 di Montreal per renderli chiari a tutti i partecipanti.