Ieri, 27 maggio 2024, abbiamo incontrato a Roma Yasmeen El-Hasan, responsabile advocacy internazionale dell’Unione dei comitati del lavoro agricolo palestinesi (UAWC). L’organizzazione, che rappresenta i piccoli produttori di cibo in Palestina, è parte della Via Campesina. Yasmeen è in un tour internazionale per sensibilizzare movimenti sociali e istituzioni sul genocidio in corso nella sua terra. Crocevia l’ha accolta a Roma, organizzando incontri istituzionali nella FAO e un momento di confronto con USB e il movimento studentesco di Cambiare Rotta, impegnato nell’occupazione dell’Università La Sapienza proprio in protesta contro la guerra di Israele contro il popolo palestinese. Delle ore di conversazione passate insieme, riportiamo un estratto del racconto di Yasmeen sulla condizione dei contadini e dei pescatori sotto attacco delle forze di occupazione israeliane.
Il racconto di Yasmeen El-Hasan
La comunità di Gaza è una comunità vicina al mare ed è costruita intorno alla pesca. Ma la struttura che regge questo sistema è stata totalmente distrutta. Hanno distrutto i porti di pesca, hanno distrutto tutti i pescherecci, le reti, tutti gli attrezzi. Prendono di mira i pescatori se cercano di avventurarsi in mare. Quando cercano di trovare risorse dove possibile, diventano un bersaglio. Non sappiamo quanti pescatori siano stati assassinati.
In modo simile, nella striscia di Gaza, la maggior parte della terra è off limits. La chiamano “area ad accesso limitato”, oppure “zona buffer”, ma sono tutte aree agricole. Hanno applicato massivamente pesticidi chimici, distrutto la fertilità del suolo e le piantine, così che i contadini non cercassero più di coltivare quelle terre.
Hanno iniziato a sparare agli agricoltori, a metterli sotto tiro se cercano di avvicinarsi alla terra. Da tempo i bombardamenti prendono di mira i sistemi alimentari e le infrastrutture. All’inizio di questo genocidio, il terzo giorno, il 10 ottobre, UAWC ha lanciato una dichiarazione che anticipava quello che sarebbe successo: un tentativo di affamare i palestinesi, l’uso della fame come arma di guerra. Nessuno ci ha ascoltato. Ma appena hanno iniziato ad attaccare le infrastrutture, i contadini, i nostri compagni che sono più vicini alla terra, ci hanno detto: non moriremo per le bombe, moriremo di fame. Se non ci uccideranno le bombe, ci ucciderà la fame.
L’attacco al sistema alimentare non è casuale, è un disegno chiaro, perché la sovranità alimentare rende le comunità capaci di autosostentarsi, di sopravvivere. L’occupazione si concentra proprio su questo, sta cercando di rompere il legame che abbiamo con la nostra terra. Il modo per farlo è distruggere i sistemi alimentari e i meccanismi di sostegno, le infrastrutture. Per questo noi diciamo: non parliamo di sicurezza alimentare, parliamo di sovranità alimentare. Perché se abbiamo sovranità sulla nostra terra e sulle risorse naturali, avremo anche sicurezza alimentare. Ma perché ciò possa accadere, dobbiamo avere la sovranità nazionale.
Nel West Bank, in parallelo al genocidio in corso nella striscia di Gaza, l’occupazione israeliana ha intensificato l’aggressione tramite gli insediamenti coloniali. Se a Gaza hanno distrutto tutte le infrastrutture, qui adottano una tattica diversa, anche se l’obiettivo è lo stesso. L’attacco dei coloni è diventato veramente violento, ha raggiunto un livello di violenza che non avevamo mai visto prima. Circa un mese fa, abbiamo subìto un’ondata di attacchi di coloni senza precedenti. In migliaia, in tutto il West Bank, hanno organizzato raid e attaccato le comunità palestinesi. Hanno dato fuoco alle terre agricole, alle case con dentro i bambini. E tutto questo accade con la protezione e il supporto delle forze di occupazione. Questi attacchi prendono di mira principalmente le aree agricole, che sono il paniere alimentare, l’area più ricca di risorse. Non è quindi per caso che abbiano attaccato queste zone, che sono le fondamenta di una comunità. Ed è per questo che assalgono contadini e agricoltori, perché sono i custodi di quelle terre.
Nel West Bank, inoltre, la libertà di movimento è ridotta. Ci sono 850 tra checkpoint, barriere, montagne di spazzatura, ogni tipo di ostacolo che possa complicare lo spostamento dei palestinesi. Questo impatta su agricoltori e pastori, perché non riescono ad accedere alle loro terre. Non solo: non riescono ad accedere ai mercati, alle strutture educative e igienico-sanitarie. Non puoi nemmeno arrivare al villaggio vicino a te. Ci ho messo sette ore per andare da Jenin a Ramallah.
Oltre a tutto questo, ci sono le forze di occupazione israeliane che attaccano le comunità rurali, le città, i campi di rifugiati. E proteggono i coloni. I coloni sono armati, e non hanno limiti. Il livello di land grabbing è tremendo e molto strategico. Si prendono tutte le aree fertili, ma soprattutto cominciano dalla cima delle colline. La Palestina è un territorio molto collinare e loro si prendono la cima delle colline. Anche la geografia verticale esprime dinamiche di potere. Loro puntano al vertice.
Il tentativo è frammentare le comunità palestinesi in piccole bolle urbane e cacciare via i produttori di cibo. Se osservi una mappa del West Bank nelle aree A, B e C, sembra fatta di isolette, connesse da queste strade super controllate. Quello che stanno tentando di fare è connettere tutti questi insediamenti fra loro. Invece di avere comunità palestinesi con insediamenti colonici qui e là, il progetto è creare una rete di insediamenti con, a margine, le comunità palestinesi.
La situazione è veramente orribile. Le famiglie non hanno cibo, non hanno lavoro e vengono attaccate con una frequenza senza precedenti. Anche i bambini. L’anno scorso, la maggioranza delle olive non è stata raccolta, perché le persone non possono accedere alla terra. E molti contadini sono stati uccisi dai coloni mentre raccoglievano le olive. La situazione di contadini, agricoltori e pescatori è assolutamente devastante. Detto questo, ogni singolo membro delle comunità con cui abbia parlato ha risposto nello stesso modo: non ce ne andremo. Sappiamo che peggiorerà, ma non ce ne andremo. Sappiamo che potremmo morire, ma non ce ne andremo. È la nostra terra: non ce ne andremo. Ogni singola persona mi ha detto così. Non se ne andranno. Questa perseveranza è davvero un riflesso della relazione dei palestinesi con la terra. È molto materiale. Sono fisicamente, intimamente interconnessi con l’ecosistema. La nostra comunità è costruita dentro l’ecosistema. Non è copincollata come gli insediamenti dei coloni. I villaggi palestinesi lavorano con l’ecosistema, gli insediamenti distruggono l’ecosistema. Non sono naturali. Potresti dirlo anche soltanto guardandoli. La relazione dei palestinesi con la terra è simbiotica. È davvero straordinaria. Non riguarda solo quel che prendiamo dalla terra, ma quello che diamo alla terra.
Sappiamo che non ci libereremo chiedendo il permesso. Nessuno verrà a liberarci. Il tuo oppressore non ti libererà e tu non sarai libera giocando secondo le regole. Ma come custodi della terra e popolo indigeno, noi sappiamo che ce la faremo. Persone della generazione prima della mia dicono di credere che succederà nel loro arco vitale. Tutto ciò che chiedono è che supportiamo questa loro fermezza. Usano il termine sumud, che significa fermezza, perseveranza. Come ho detto, io sono responsabile delle attività di advocacy a livello internazionale, perciò quando visito le comunità domando sempre: avete richieste specifiche per la comunità internazionale? Mi rispondono: supportate la nostra perseveranza.