IL CONTADINO INVISIBILE. Chi minaccia il grano italiano?
Il sudore cola come un piccolo ruscello di montagna lungo la schiena, sugli occhi, quasi impedendoti di vedere. Le gambe non reggono e le braccia si muovono sempre con più difficoltà. Fatica, dura e pesante. Continuare fino alla fine, non fermarsi. Il tempo corre, lui, e non si ferma. Le ultime carriole sono le più pesanti. Non ci sono muscoli guizzanti al sole (sarà per l’età, non è uno di quei giovani agricoltori fotografati davanti a trattori da 100.000 €, veri “imprenditori moderni” mica “contadini”), non c’è l’adrenalina che sale e ti sostiene. Non sta alle olimpiadi, sta solo pulendo i pollai prima dell’inverno, al sole di agosto. Niente medaglie, solo ottimo concime. Ma questa è un’altra storia, come si dice. La crisi prodotta da prezzi “bassi”, stabilmente bassi e, in prospettiva storica, decrescenti del grano non sono una novità. Cosi come la volatilità generale dei prezzi dei cereali non è una notizia. Senza andare molto lontano, i documenti provenienti dal mercato francese (la Francia, fino ad ora, primo produttore di cereali europeo) ci dicono che il grano vale (FOB) tra 16,6 e 16,7 € il quintale ma per contratti a termine ( scadenza:maggio 2017) “senza consegna del bene” vale 12 € il quintale. La FAO, di suo, ci segnala solo un modesto aumento della produzione mondiale di cereali, compensato da un aumento dell’utilizzazione del grano per l’alimentazione del bestiame (circa 4 milioni di tonnellate in più di quelle utilizzate nel 2015, a causa di una domanda in aumento in UE, USA e Indonesia). Più in generale, la stima attuale(FAO) è che ci sarebbe un aumento dello 0,8% dell’utilizzazione del grano (aumento della domanda) rispetto all’annata agraria 2015-2016. Ricordiamo comunque che la produzione totale di cereali, escluso riso, solo per una quota che varia dal 35% (raccolto 2007/8) al 32% (raccolto previsto 2016/17) è utilizzata a fini alimentari e solo una proporzione tra il 14 ed il 15% negli anni tra il 2007ed il 2016 viene esportata. (FAO)
Considerando una produzione mondiale di grano di poco oltre le 732 milioni di tonnellate (luglio 2016) più bassa di un paio di milioni di tonnellate rispetto all’annata precedente, il commercio mondiale dovrebbe coprire solo un modesto 20% circa. Ma era la stessa proporzione anche nel 2013, 2014 e 2015. Quindi nessuna novità: solo il 20% del grano prodotto nel mondo va sul mercato mondiale dove vigono le leggi dei grandi monopoli, della borsa merci di Chicago e dei fondi d’investimento. Come mai allora su quei prezzi e quei contratti a termine si fa il prezzo di riferimento di tutto il grano prodotto? Perché il processo di trasferimento di quelle quotazioni vale anche nelle borse merci italiane? Tema questo molto studiato dall’accademia ma mai risolto dalle politiche pubbliche.
“Unfortunately, the low price will not cover the cost of production for most farms” dice Leo Oliva, piccolo agricoltore nel Kansas (USA) , “I prezzi (2016) sono i più bassi – fatte le dovute proporzioni – dal tempo della Guerra Civile (1866)” (USA).
Allora tutti i produttori di grano sono in perdita?
Cerchiamo qualche riferimento in Italia. Le aziende che coltivano cereali (tutto compreso) erano nel 2013 467.737(ISTAT SPA, 2013), di queste 128.052 hanno coltivato frumento tenero e spelta, e 202.169 frumento duro. E secondo il censimento dell’agricoltura del 2010, su 326.389 aziende che coltivavano frumento, 7.300 avevano un’estensione superiore ai 100 ettari, mentre 283.247 avevano un’estensione inferiore ai 30 ettari. Considerando i processi di concentrazione della terra avvenuti in questi ultimi anni, ragionevolmente, possiamo considerare che la proporzione si sia mantenuta o aggravata cioè più dell’87% delle aziende hanno una piccola dimensione, mentre le grandi superfici coltivate sono appannaggio del 2% delle aziende. Queste aziende hanno tutti gli stessi costi di produzione? E ricevono tutti una cifra identica di sostegno PAC per azienda? Sappiamo che il riferimento del supporto PAC, alla fine, resta il numero di ettari coltivati. Interviene la politica sulla scorta delle mobilitazioni dei produttori di grano ed il MIPAF, il 2 agosto, mette a disposizione 10 milioni di € “…in un fondo dedicato per l’avvio del piano cerealicolo nazionale a sostegno delle produzioni di grano italiane e per la valorizzazione della qualità. Tra gli interventi sono previsti investimenti per infrastrutture di stoccaggio dedicate, ricerca e innovazione a supporto del frumento duro..”. Da quello che è dato capire, al momento sembrano soldi a disposizione della ricerca e dei pastai.
Peggio è andata ai cerealicultori francesi che hanno subito il peggior raccolto degli ultimi 40 anni con un crollo del 30% rispetto al 2015 e del 26% rispetto alla media degli ultimi 5 anni. E già i prezzi in Francia non erano un gran che. A gennaio 2016 il grano si vendeva intorno ai 14€ il quintale! Ora, malgrado il raccolto disastroso (si dirà, meno offerta, mi arricchisco!) il prezzo di riferimento continuerà ad essere intorno ai 12€/qli per “competere con produttori russi e argentini”. Questi ultimi, grazie al nuovo governo reazionario e ultra-liberista, si sono visti annullare le tasse all’esportazione e quindi hanno interesse ad aumentare le quantità esportate. Viva il libero mercato! Secondo le dichiarazione dei grandi cerealicoltori francesi, ad esempio quelli che hanno coltivato 120 ettari di grano, considerano una perdita d’annata intorno ai 60/70.000 €.
Viene da chiedersi chi guadagna nella coltivazione del frumento. Non solo i pastai, comunque. I fondi d’investimento sicuramente. Ma in Italia, è facile immaginare che nessuna di quelle 200.000 aziende agricole che hanno meno di 10 ettari abbia mai fatto affari d’oro producendo grano anche quando questo veniva pagato eccezionalmente, oltre i 20/30€ il q.le, per loro la PAC rappresentava una cifra irrisoria per il reddito familiare. Diversa la situazione di chi coltiva oltre 100 ettari, magari mille, li, la PAC faceva e fa una molto sostanziale differenza. Anche loro subiscono la crisi?