Perché non ci serve un IPCC del cibo

Nel 2015, il ruolo del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) nella politica climatica globale ha spinto alcuni accademici tedeschi a proporre una piattaforma equivalente per sostenere le trasformazioni del sistema alimentare. Questi appelli oggi stanno trovando nuovo slancio nel contesto del prossimo vertice sui sistemi alimentari delle Nazioni Unite (UNFSS), in programma il 23 settembre a New York.

Ma abbiamo davvero bisogno di un “IPCC del cibo”? Abbiamo davvero bisogno di una nuova interfaccia tra scienza e politica su questi temi? Secondo noi no. Per questo siamo condividiamo i rischi che alcuni ricercatori olandesi hanno evidenziato in un articolo pubblicato pochi giorni fa su Science, in cui evidenziano le controindicazioni di una mossa del genere. Il loro contributo mette in dubbio la legittimità di questa iniziativa e sottolinea che un simile organismo rischia di non essere realmente inclusivo e multidisciplinare. Come accade anche nell’ambito della scienza climatica, gli esperti che redigono scenari e proposte al più alto livello sarebbero con tutta probabilità nominati dai governi. Nell’IPCC questo determina che da un lato la stragrande maggioranza ha una formazione tecnico-economica, dall’altro il sistema di nomine governative restringe il campo a individui che hanno un buon dialogo con le istituzioni e può rafforzare la tendenza all’autocensura o al conformismo. Infine, una simile impostazione produce risultati come quelli che vediamo nei rapporti sul clima: enorme e ingiustificato affidamento su tecnologie sperimentali e poca attenzione alle riforme politico-economiche che ben più impatto avrebbero sulle crisi.

Il tecno-ottimismo è di casa anche al Food Systems Summit che ONU e World Economic Forum, insieme a Fondazione Rockefeller e Fondazione Bill&Melinda Gates stanno preparando nella “grande mela”. Questa alleanza, costruita per escludere milioni di persone appartenenti al mondo rurale e contadino e alle organizzazioni della società civile, sta cercando di cambiare il sistema di governance oggi esistente. Vuole farlo costruendo nuovi spazi di negoziato e di influenza, a partire proprio da un panel di tecnici scelti ad hoc per fornire scenari e previsioni. In prima fila a sostenere questa proposta l’UE e alcuni governi. Eppure non mancano iniziative intergovernative per tradurre in politica le conoscenze sui sistemi alimentari. C’è già il gruppo di esperti di alto livello sulla sicurezza alimentare e la nutrizione (HLPE), interfaccia del Comitato delle Nazioni Unite sulla sicurezza alimentare mondiale (CFS). Questo organismo è stato creato nell’ottobre 2009 come elemento essenziale della riforma CFS e mira a facilitare i dibattiti politici e informare il processo decisionale fornendo analisi e consulenza indipendenti.

Il “problema” è che l’HLPE tiene consultazioni con le diverse parti interessate e formula le sue raccomandazioni in base alle diverse visioni e forme di conoscenza: la manipolazione genetica e l’agroecologia sono solo due esempi. Tra queste posizioni non c’è solo un conflitto tra interessi contrapposti, esistono proprio controversie sulla conoscenza che sta alla base dei rispettivi modelli. Si chiama, in poche parole, dibattito democratico. Un dibattito che il Food Systems Summit e i tifosi di un “IPCC del cibo” vogliono azzerare. Creare una nuova assise di scienziati slegati dalla società ma vincolati alle istituzioni e al settore privato permetterebbe a governi e imprese di scrollarsi di dosso la combattiva società civile e la maggioranza dei paesi del Sud, depoliticizzare il tema del cibo e accelerare il processo di revival della rivoluzione verde in salsa digitale sulla cui base le corporazioni transnazionali stanno organizzando le loro strategie di greenwashing.

Non possiamo accettarlo, e meno che mai dopo lo sforzo trentennale per avere uno spazio di discussione ai tavoli dove si decidono le strategie alimentari del pianeta. Nel 1996 la dichiarazione che il Forum delle ONG sottopose al Summit mondiale sull’alimentazione dichiaravamo:

“Noi[1] rappresentiamo più di 1000 organizzazioni di almeno 80 paesi, di tutte le ragioni del Pianeta. Noi tenteremo di far sentire la voce di più di un miliardo di affamati e malnutriti, per la maggior parte donne e bambini. Attraverso delle consultazioni regionali e globali, abbiamo scoperto e affermato la nostra reciproca solidarietà. La nostra visione collettiva deriva dalla constatazione che la sicurezza alimentare è possibile…. La vergogna che provoca la fame e la malnutrizione planetaria impone l’intervento di tutti. Allo stesso tempo insistiamo sul fatto che i Governi hanno la responsabilità, più importante ed irrinunciabile, di assicurare la sicurezza alimentare nazionale e globale… La globalizzazione dell’economia, così come la mancanza di qualsiasi efficace controllo sull’azione delle Multinazionali (TNC)  e la diffusione di modelli di consumo insostenibili hanno aumentato la povertà nel mondo… L’economia globale oggi è caratterizzata dalla disoccupazione, da bassi salari, dalla distruzione delle economie dei territori rurali e dell’agricoltura familiare”.

Da allora abbiamo fatto breccia sui tavoli negoziali della FAO, del Trattato sulle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura (ITPGRFA) e della Convenzione sulla Biodiversità, abbiamo ottenuto ascolto e fatto nascere meccanismi di partecipazione per i movimenti sociali e la società civile. Abbiamo contribuito a tutti gli effetti a democratizzare un processo di altissimo livello che fino ad allora non era stato in grado di intercettare le voci dei piccoli produttori di tutto il pianeta.

Quelli che abbiamo costruito sono spazi di dialogo e di confronto, talvolta di scontro, ma sono spazi politici. Spazi che oggi qualcuno ha in mente di restringere con la scusa di dover agire tempestivamente per far fronte agli impatti della pandemia sulla sicurezza alimentare.

Ci sembra contraddittorio e ambiguo questo nuovo afflato compassionevole che viene da personalità, organizzazioni caritative e imprese che in questi anni hanno tentato in ogni modo di facilitare i processi di industrializzazione dell’agricoltura, soprattutto nel Sud globale. Non è facile dare altro credito a chi approfitta regolarmente delle crisi – siano esse economiche, ecologiche, sanitarie o come in questo caso tutte e tre insieme – per rafforzare la sua presa neocoloniale sull’agricoltura contadina e le produzioni familiari.

Ecco perché la proposta di creare un “IPCC del cibo” ci sembra più che altro un tentativo di delegittimare il percorso politico e democratico che abbiamo costruito in questi anni. Dall’ITPGRFA alla Dichiarazione dei diritti dei contadini e delle persone che vivono nelle aree rurali (UNDROP), passando per il protocollo di Cartagena e la Convenzione sulla Biodiversità, possiamo dire che le norme ci sono già. Non ci serve studiare altre misure, piuttosto occorre mettere in pratica quelle esistenti. Per farlo occorre mettere tutta la normativa sul rispetto dei diritti umani al di sopra delle disposizioni che sostengono la libertà di impresa e i diritti di proprietà intellettuale.

Solo se le Nazioni Unite e i governi troveranno il coraggio di adottare questa prospettiva, la crisi multidimensionale in cui ci hanno trascinato seguendo vecchi paradigmi potrà risolversi.


[1] PROFITTO PER POCHI O ALIMENTAZIONE PER TUTTI. Sovranità e sicurezza alimentare per eliminare la globalizzazione della fame. La dichiarazione del FORUM DELLE ONG presentata al Vertice Mondiale dell’Alimentazione – FAO, Rome, Italia 17 Novembre 1996