Cosa è successo alla COP15?

Alla fine l’accordo è arrivato. Per qualche giorno, sul finire della COP, si pensava che sarebbe stata una sorta di “Copenhagen della biodiversità”, in riferimento al clamoroso fiasco della COP15 sul clima, tenutasi nella capitale danese nel 2009. Questa volta invece, la COP15 sulla biodiversità di Montréal si è conclusa il 19 dicembre con l’approvazione del Global Biodiversity Framework, un nuovo quadro di obiettivi globali per arrestare la perdita di biodiversità entro i prossimi 8 anni. Quasi 200 paesi hanno concordato questi target, nel tentativo di riportare un po’ di credibilità in un processo completamente squalificato dai fatti. La prima lista di obiettivi decisi nel 2010 ad Aichi, in Giappone, è stata disattesa in ogni sua parte quando nel 2020 sono state tirate le somme. 

È stato un accordo senza leader globali, perché praticamente tutti i capi di stato e di governo hanno preferito non presentarsi alla COP, facendone calare il peso politico e mediatico. Lo stesso governo cinese, che doveva ospitare il vertice poi finito in Canada per le restrizioni pandemiche del dragone – ha tenuto un basso profilo.

Noi abbiamo partecipato alla prima settimana di COP15 e seguito da remoto la seconda, portando nell’ambito dell’International Planning Committee for Food Sovereignty (IPC) la voce dei piccoli produttori di cibo del pianeta, centinaia di milioni di persone che hanno un ruolo chiave nel preservare e riprodurre la biodiversità globale. 

Un accordo al ribasso

Diciamo subito che non siamo soddisfatti del risultato. Nel Global Biodiversity Framework, che già di per sé non prevede disposizioni vincolanti, è stato privilegiato un linguaggio generico, così da annacquarne anche le più vaghe ambizioni. anche se per la prima volta vengono fatti riferimenti all’agroecologia, anche se affiancata al concetto pericoloso di “intensificazione sostenibile” inserito a forza da campioni dell’agribusiness come Brasile e Argentina. Un’altra buona notizia è la menzione del ruolo strategico dei Popoli Indigeni, perché viene messo nero su bianco il riconoscimento dei “territori indigeni e tradizionali” e il rispetto dei “diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali sui loro territori tradizionali”. Tuttavia, il testo si guarda bene dal citare espressamente le norme internazionali che descrivono il “come” si rispettano questi diritti, in particolare la Dichiarazione ONU sui diritti dei Popoli Indigeni (UNDRIP) e quella sui diritti dei contadini e delle persone che vivono nelle zone rurali (UNDROP). A nostro giudizio, quindi, resta un bell’esercizio retorico senza meccanismi di implementazione reali e misurabili. Popoli Indigeni e piccoli produttori di cibo sono, e dovevano essere riconosciuti pienamente, il pilastro della conservazione e dell’uso sostenibile della biodiversità.

L’obiettivo principale, poi raggiunto, dei conservazionisti (le grandi ONG ambientali in primis) alla COP è il “30×30”, cioè la promessa di conservare il 30% degli ecosistemi terrestri e il 30% di quelli acquatici entro il 2030. Un secondo obiettivo 30×30 è quello che prevede da parte dei paesi sviluppati la mobilitazione di 20 miliardi di dollari l’anno per finanziare i paesi in via di sviluppo l’anno a partire dal 2025, per salire a 30 dal 2030. Briciole, se paragonati ai sussidi pubblici a pratiche agricole insostenibili e dannose per la biodiversità, che ammontano ai 470 miliardi di dollari l’anno. Le risorse totali da mettere in campo attraverso un Global Biodiversity Fund ammontano, in totale, a 200 miliardi di dollari entro il 2030, il che dimostra che il contributo dei governi potrebbe essere pari ad appena il 10% del totale e il resto venire da fondi privati ed enti filantropici. Infine, l’accordo prevede di eliminare almeno 500 miliardi di dollari di sussidi dannosi. Tuttavia, non vengono menzionati sussidi specifici, dopo che i riferimenti a quelli relativi ad agricoltura e pesca sono stati tagliati dal testo finale. 

Tutte queste sono in ogni caso aspirazioni: occorre ricordare come le parti abbiano più volte chiesto di specificare che nessuna componente dell’accordo è giuridicamente vincolante. Nonostante questo, si utilizzerà un meccanismo simile a quello dell’accordo di Parigi sul clima, che prevede di creare un programma di monitoraggio, rendicontazione dei risultati che incoraggi l’incremento (sempre volontario) delle ambizioni.

I rischi per la pesca artigianale 

La pesca è menzionata solo di passaggio nel Target 10 del Global Biodiversity Framework, insieme ad agricoltura, acquacoltura e gestione forestale. Questo è il punto del testo in cui compaiono appaiati i due concetti opposti di intensificazione sostenibile e agroecologia, come se si potessero considerare equivalenti.

Il nostro lavoro, in questo ambito, è stato sottolineare come un approccio conservazionista “duro”, che non tenga conto delle persone che vivono gli ecosistemi e la loro biodiversità da generazioni, rischia di rivelarsi un pericoloso boomerang. La conservazione senza diritti umani è colonialismo. Abbiamo cercato di sottolineare che le comunità di pescatori su piccola scala devono partecipare al dialogo sulla gestione sostenibile della biodiversità in qualità di titolari di diritti, invece di essere rimosse dai propri territori da progetti di conservazione della biodiversità che si trasformano in abusi. Come abbiamo dichiarato al Guardian di recente, se i governi si concentrano solo sulla creazione di aree marine protette, senza consultare le comunità di pescatori artigianali, coinvolgere attivamente o affidare loro la gestione diretta, perderemo la loro conoscenza unica che ci consente di trovare la chiave per un mondo in cui uomo e natura possano coesistere. 

Nel corso degli anni, sono state tantissime le testimonianze da parte delle comunità di pescatori di piccola scala delle violenze subite da parte delle autorità locali. Alcuni di loro sono stati perfino assassinati perché tornati a pescare nei loro territori trasformati in aree marine protette senza essere stati minimamente coinvolti nel processo. Spesso è accaduto che fossero vittime di allontanamenti ed espropriazioni forzate delle loro terre. Quando si parla di aree marine protette, gli studi si concentrano maggiormente sulla protezione delle specie animali e vegetali che la abitano, pochi si concentrano sulle loro implicazioni sociali e le ricadute sulle comunità locali e le popolazioni indigene che dipendono da quelle risorse ittiche per il loro sostentamento. Ricordiamo che i dati dimostrano che sono i territori gestiti da Popolazioni Indigene o comunità di produttori di piccola scala a offrire i migliori esempi di protezione dell’ambiente. Lo sostiene anche l’autorevole Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) che informa i negoziati sia della COP CBD che della COP Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Tuttavia, le priorità dei governi sembrano essere altre, basto pensare che all’inizio delle negoziazioni della COP15 l’UE è stata accusata di aver cercato di annacquare l’obiettivo 30×30 sostenendo che le industrie estrattive, come quella mineraria e quella petrolifera, dovrebbero poter operare nelle aree protette, a condizione che non abbiano un impatto negativo sulla biodiversità, supportando l’idea che solo il 10% dovesse essere strettamente protetto.

Le comunità di pescatori su piccola scala sono gravemente minacciate dalla perdita di biodiversità nei loro territori, e questo viene attribuito da fattori esterni come la crescente estrazione di risorse minerarie e energetiche, la produzione di materie prime, e le infrastrutture di trasporto. Questo genere di investimenti viene spesso effettuato nel quadro della cosiddetta economia blu (Blue Economy), che come descritto dalla Banca Mondiale, dovrebbe corrispondere all’“uso sostenibile delle risorse oceaniche per la crescita economica”, ma che di fatto alimenta l’aumento esponenziale dello sfruttamento delle aree ittiche.

Mettiamo in dubbio l’effettivo potenziale e valore delle zone protette nella biodiversità, se questo significa violare i diritti delle comunità che le abitano da generazioni e criminalizzare la pesca di sussistenza e comunitaria. Se proteggiamo in questo modo il 30% dei nostri mari e delle nostre terre, non vogliamo immaginare cosa succederà al restante 70%.

Le diete individuali al posto delle politiche pubbliche

In un anno come questo, la COP15 non poteva evitare il discorso sulla necessità di garantire la sicurezza alimentare mondiale, utilizzate spesso come alibi per mantenere lo status quo e rallentare la transizione ecologica dei sistemi alimentari. Eppure, secondo noi, la principale responsabile di un pianeta con 828 milioni di persone che soffrono la fame e 2,3 miliardi di persone sottonutrite o malnutrite, è proprio la produzione alimentare industriale globalizzata. 

Tuttavia, invece di mettere per iscritto che il modello da seguire dovrebbe essere l’agroecologia, le parti non hanno saputo fare di meglio che scaricare tutto il peso sulle diete delle persone. Pertanto l’accordo prevede che “le persone siano incoraggiate e messe in grado di fare scelte di consumo sostenibili”. Nel frattempo, cancellavano ogni riferimento al principio di precauzione e sdoganavano un approccio schiacciato sulla biotecnologia. Il testo del GBF è infatti disseminato il testo di esortazioni a promuovere “scienza, tecnologia e innovazione”.

Scontro sulla DSI 

Un punto che ci stava particolarmente a cuore riguarda tutto il dibattito sulle risorse genetiche e le informazioni sulla sequenza digitale (DSI). Dal 2018 seguiamo questo processo internazionale della CBD e abbiamo sempre fatto pressioni per salvaguardare i diritti dei contadini che selezionano la biodiversità in campo, una biodiversità agricola che gli viene poi sottratta dalle imprese sementiere e biotecnologiche, per sviluppare varietà commerciali coperte da diritti di proprietà intellettuale.

I paesi del sud del mondo ospitano la maggior parte della biodiversità mondiale e, quindi, anche la sua diversità genetica. La COP si interrogava quindi su chi deve avere accesso a queste informazioni genetiche, come devono essere utilizzate, chi ne beneficia e come questi benefici possano essere condivisi equamente. Il tema della giusta ed equa ripartizione dei benefici delle risorse genetiche e delle conoscenze tradizionali che le circondano è già oggetto del Protocollo di Nagoya, un accordo del 2014 che fa da supplemento alla CBD. Se finora è stato molto difficile ottenere una equa condivisione dei benefici derivanti dallo sfruttamento commerciale di queste risorse, con la loro digitalizzazione e trasformazione in dati, rischia di diventare impossibile. 

La DSI, cioè l’informazione di sequenza digitale è un dato derivato ​​da risorse genetiche. Come tale può essere incluso in database pubblici o privati: ad esempio, i dati sulla sequenza genetica tratti da una pianta endemica di un territorio indigeno potrebbero essere potenzialmente pubblicati in una rivista open access, quindi utilizzati per creare un farmaco brevettato senza bisogno della pianta stessa e quindi senza compensare per questa “invenzione”il paese di origine dell’informazione genetica o la comunità che l’ha custodita e adattata all’ambiente fino ad oggi. 

Dentro la DSI si nasconde quindi un enorme volume di potenziali profitti per l’industria agrochimica, farmaceutica e biotecnologica, sulla pelle delle comunità di produttori di piccola scala, che potrebbero perfino essere incolpati di stare utilizzando risorse coperte da diritti di proprietà intellettuale che gli sono stati invece scippati attraverso l’uso libero delle DSI.

Per mettere un argine a questo rischio, alla COP15 i paesi hanno concordato di sviluppare un meccanismo multilaterale di condivisione dei benefici derivanti dalla DSI, compreso un fondo globale. Tutto questo dovrebbe avvenire nei prossimi anni, ma grandi domande restano senza risposta: chi governa il fondo? Chi mette le risorse? Come saranno distribuiti i benefici monetari e non? A quanto ammonteranno?

Siamo un po’ nella stessa situazione che ha contraddistinto la recente COP27 sul clima di Sharm el-Sheikh, in cui è nato un fondo per compensare i paesi più colpiti dalla crisi climatica ma non si sa chi ci metterà i finanziamenti, quanti e da quando. Il governo cileno, che ha guidato la discussione per raggiungere un accordo su questo punto alla COP27, è lo stesso attore che ha ottenuto l’accordo DSI nella COP15.

Nonostante questo, diversi paesi africani sono soddisfatti del risultato. Il mondo accademico e l’industria hanno invece remato contro ogni soluzione, difendendo la libertà di accesso ai dati. Sconcertante come i ricercatori non tengano conto del fatto che i risultati del lavoro che fanno sono poi protetti da diritti di proprietà intellettuale e monopolizzati da poche industrie che acquistano i loro risultati. Notiamo con preoccupazione il consolidarsi di un complesso intellettuale-industriale votato al profitto invece che all’interesse generale e al rispetto dei diritti degli agricoltori.

Cosa succede adesso

Ora è il momento di mettere in moto il Framework e lavorare sull’implementazione. Per essere un framework che doveva durare 10 anni – originariamente la COP15 doveva svolgersi nel 2020, in seguito posticipata per la pandemia – ora ne rimangono solo 8 per raggiungere qualche risultato. Dopo il fallimento dei target di Aichi, non possiamo permetterci un altro fiasco. Nonostante i target siano generici, lavoreremo per ottenere una loro implementazione stringente. 

Da adesso in poi, i paesi si riuniranno ogni due anni per discutere dei passi in avanti da compiere, e l’IPBES – il gruppo scientifico intergovernativo che produce report per la CBD sulla condizione della biodiversità – informerà sullo stato di avanzamento dei lavori. La prossima COP della CBD avrà comunque temi importanti da discutere come la DSI, l’impatto dell’agricoltura sulla biodiversità dei suoli e non solo. 

Nell’ambito di questa roadmap, il lavoro di Crocevia e dell’IPC si concentrerà sull’aprire sempre più spazi per i produttori su piccola scala all’interno della Convenzione sulla biodiversità e continuare a tutelare i piccoli pescatori e produttori che sopravvivono grazie ai loro ecosistemi e alle conoscenze ancestrali trasmesse di generazione in generazione, che consideriamo un patrimonio da tutelare e valorizzare. Il ruolo di chi promuove l’agroecologia, così come una pesca di piccola scala e rispettosa dell’ambiente e dei suoi guardiani, è infatti una chiave sia per ridurre l’impatto negativo dell’agroindustria, sia per far emergere un modello alternativo come soluzione alla perdita di biodiversità.